Siamo tutti interconnessi, nel bene e nel male. Ovvero, il benessere individuale si realizza inevitabilmente nell’ambito dello spazio sociale, dilatatosi enormemente con la diffusione dei nuovi media e social network. Un ambito di ricerca nel campo della comunicazione sociale indaga il ruolo dei media nella costruzione e nel mantenimento del benessere psicologico della popolazione. Siamo continuamente esposti alle “brutte notizie”: dalle catastrofi naturali, alle guerre, agli incidenti più o meno gravi, agli omicidi familiari che risuonano nel sistema delle nostre relazioni familiari e al continuo stillicidio delle news economiche foriere di un futuro incerto.
Le notizie buone, positive, confortanti, sono sporadiche e scarsamente pubblicizzate. In ogni caso esse sono troppo poche per compensare l’effetto dirompente e contagioso delle emozioni suscitate dagli eventi spiacevoli o drammatici che attivano in alcuni un intenso desiderio di fare qualcosa, esserci, partecipare, voler agire subito per alleviare la sofferenza altrui ed in altri sentimenti contrastanti di vicinanza emotiva e di distacco. «Una esposizione mediatica che raggiunge il cervello e lo induce ad avere principalmente due reazioni: una di indifferenza con la perdita di empatia e compassione, un metodo difensivo per mantenere l’equilibrio e passa attraverso ad un meccanismo di distacco, e un altro che “assorbe” le negatività sviluppando ansia, insicurezza sino a depressione e attacchi di panico» spiega Giorgio Maria Bressa, psichiatra a Roma e docente di Psicobiologia del Comportamento presso l’Università Pontificio Ateneo Salesiano di Viterbo.
Spesso, dopo una overdose mediatica - una notizia drammatica che rimbalza di programma in programma, dai telegiornali ai talk show e si amplifica con il dibattito sulla Rete - scatta nello spettatore il desiderio di ritornare subito alla normalità, alle piccole cose di tutti i giorni, desiderando escludere dalla mente il più presto possibile dalla mente l’evento traumatico. Dopo alcuni giorni anche in coloro che si erano lasciati contagiare emotivamente, l’interesse comincia a scemare e infine continueranno a provare empatia solo gli osservatori che in qualche modo sono entrati concretamente in contatto con le persone coinvolte nell’evento.
«Non sembra infatti che un’attenzione emotiva, episodica, oppure scandalistica del dolore, come l’uso ad effetto dell’ultimo caso pietoso, ne possa costituire un ascolto autentico: in questa prospettiva, il dolore è solo apparentemente portato a consapevolezza, mentre in realtà viene nuovamente rimosso, disatteso, e strumentalizzato, proprio perché enormemente ingigantito e ridotto all’eccezionale» - scrive Franco Riva, docente di Etica sociale all’Università Cattolica di Milano, nel saggio “La rinuncia al sé” (Edizioni Lavoro).
È pensabile di rivedere il complesso e multiforme sistema dell’informazione per promuovere la prassi della «buona comunicazione?». «Ovviamente non voglio colpevolizzare il sistema dell'informazione ma questi in qualche modo ci offre quotidianamente una rappresentazione della realtà che tendiamo ad assumere - continua il professor Bressa -. Si pensi che nel periodo in cui ci veniva detto che la recessione era passata, stavamo meglio, anche se non era vero e ci stavamo avvicinando al baratro del default. Ora è come se i conduttori ci dicessero: “vi auguriamo una pessima giornata”.
Certo, abbiamo sempre la possibilità di cambiare canale o spegnere la televisione ma una civiltà interconnessa e altamente informata non può sottrarsi facilmente a questo blob di informazioni negative che impattano sulle condizioni già critiche di ciascuno. Si crea così un “umore collettivo”, sulla scorta del modello dell’inconscio collettivo ipotizzato da Jung che si instaura e si propaga proprio come un virus. Negli ultimi mesi abbiamo assistito ad un aumento verticale delle richieste di aiuto per disturbi d’ansia generalizzata e per i suoi eventi più acuti, gli attacchi di panico. La gente sente un continuo senso di perdita, di stress, paura per il futuro che appare poco certo. Riscontro continuamente sentimenti amari, di perdita di fiducia e di speranza che possono gettare le basi della depressione».
Gli attacchi di panico si manifestano con una paura intensa senza una causa apparente e durante lo svolgimento di normali attività quotidiane. I sintomi comprendono: respirazione accelerata, tremori, sudorazione profusa, nausea, palpitazioni dolore al petto e una sensazione di immobilità, di irrealtà, di morte imminente e di perdita delle facoltà mentali. Il soggetto può rivolgersi al Pronto Soccorso convinto di aver avuto un attacco di cuore. Il disturbo presenta caratteristiche di familiarità e colpisce più frequentemente il sesso femminile.
«La causa biologica - spiega lo psichiatra - sembra essere una alterazione dei meccanismi di allarme del cervello che scattano anche in assenza di uno stimolo reale e che scatena una reazione di difesa o di fuga con il lungo corollario di sintomi determinati dall’attivazione del Sistema Nervoso Autonomo, che controlla i meccanismi della respirazione, della pressione sanguigna, della frequenza cardiaca e della sudorazione. Se a volte il disturbo (DAP) compare a seguito di un evento stressante, spesso è assolutamente estemporaneo e interessa soggetti con una buona salute psicologica».
Ogni attacco aumenta la paura del successivo innescando una reazione a catena di ansia anticipatoria, come pure il possibile evitamento delle situazioni in cui si sono verificati gli attacchi. In mancanza di cure adeguate il DAP può condurre ad un decadimento della qualità di vita e al ritiro graduale dalla vita sociale, una condizione che Bressa ha efficacemente descritto nel libro “Mi sentivo svenire” da poco ripubblicato per IPOC (Italian Path of Culture).
rosalba miceli - lastampa.it
Commenti
Posta un commento